Pubblichiamo il SALUTO di DOMENICO CECCHINI
al Convegno “UN FUTURO PER ROMA”, CGIL, 22 febbraio 2010
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Vi ringrazio per la possibilità che mi date di portare a questo Convegno il saluto dell’INULazio, la Sezione regionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica. Un Istituto che annovera tra i suoi padri fondatori Adriano Olivetti, della cui scomparsa venerdì prossimo cadrà il 50ennale. Una figura grande di imprenditore e di intellettuale, non solo rispettoso ma promotore dei diritti sindacali, la cui straordinaria opera di creatore di cultura, di innovatore e di urbanista voglio qui ricordare con voi.
Da alcuni mesi siamo impegnati a rilanciare la nostra attività. Intendiamo mantenere, ed anzi rafforzare la natura di “Istituto di alta cultura” dell’INU, fondato sul lavoro volontario e disinteressato dei suoi partecipanti. Un modo di lavorare, volontario e disinteressato, che di questi tempi ci sembra prezioso, di cui andare fieri e da estendere.
Siamo impegnati anche nel mantenere e rafforzare la base “tecnica” del nostro lavoro, la cui qualità ci viene generalmente riconosciuta, e che potete apprezzare visitando il nuovo sito web della Sezione, attivo da gennaio.
Però intendiamo che questa caratteristica di “tecnici” e di “esperti” non faccia ombra, anzi sostenga una maggiore vicinanza ai problemi concreti della vita in una grande città, in un sistema metropolitano.
L’urbanistica tocca ogni giorno problemi molto concreti della vita quotidiana. Da sola non può risolverli. Ma può scegliere di non nasconderli.
Di dare il suo contributo tecnico, limitato, possibilmente utile alla loro soluzione.
Di questa impostazione, di questo rilancio fa parte il rinnovato e solido rapporto con voi della CGIL.
Per chiarire cosa intendo ricordo una storia della cronaca romana di qualche giorno fa.
Siamo stati, credo, tutti colpiti dalla vicenda di Cintanami Puddu, una ragazza madre di 21 anni – come lei stessa si definisce in una bella lunga lettera che ha spedito al Sindaco e al Corriere della Sera – che l’ha pubblicata in prima pagina. A diciassette anni Cintanami decise di non abortire e di far nascere e di crescere sua figlia. Ha affrontato con determinazione e incrollabile coraggio le difficoltà che questa scelta comportava. Aiutata da qualche amica, vivendo ospite e provvisoria, è riuscita a completare gli studi, e con buoni voti! E’ andata avanti, ha trovato lavori precari e malpagati, ha fatto crescere sua figlia che ora è una bambina di quasi cinque anni. Ha trovato il modo di entrare – senza titolo, ma con quanti “diritti” ! – in una casa dell’ATER. Ma ora ne deve uscire affinché l’appartamento sia assegnato ad un’altra famiglia, più avanti nella graduatoria. Dopo cinque anni di sacrifici Cintanami vede di fronte a sé una prospettiva drammatica, senza casa, con 7.000 € l’anno, precaria. Non si scoraggia, prende carta e penna e scrive.
Di fronte alla prima pagina del Corriere il Sindaco non può negarsi e trova una soluzione. L’accoglienza in una struttura dedicata a Via del Casaletto, dove potrà abitare in un monolocale di 30 mq (dichiara il Sindaco) con la promessa di poterne disporre fino a quando non troverà un’altra soluzione dignitosa.
Una giovane donna e una bambina escono dall’angoscia.
Ma quante altre giovani donne, giovani famiglie si trovano in situazioni non meno difficili? In quanti altri casi non c’è la prima pagina?
Questa vicenda pone a noi tutti diversi e precisi problemi.
Il primo si chiama gestione del patrimonio abitativo pubblico.
L’ATER di Roma, il vecchio IACP, possiede circa 51.000 alloggi. Il Comune di Roma circa altrettanti. Insieme sono più di 100.000 appartamenti pubblici. Meno del necessario, certo, ma comunque molti. A Roma ci sono circa un milione di famiglie residenti, 850.000 delle quali vivono in alloggi di cui sono proprietarie. Le altre 250.000 vivono in alloggi in affitto. Uno su cinque è dell’ATER e più di due su cinque, che corrispondono a quasi la metà di tutte le famiglie che vivono in affitto, sono di proprietà gestiti da ATER e Comune.
Eppure nessuno è soddisfatto della loro gestione. L’ATER ha più volte denunciato che le entrate degli affitti non sono neanche sufficienti a coprire le spese di manutenzione ordinaria. E siccome il patrimonio è molto vecchio, figurarsi per la manutenzione straordinaria!
C’è molta morosità.
Non si riescono a gestire i normali avvicendamenti: se una famiglia migliora le sue condizioni economiche, o i figli vanno ad abitare altrove, l’appartamento dovrebbe tornare ad essere disponibile ed assegnato ad un’altra famiglia. Ma così non è. Avere una casa pubblica a Roma è come conquistare un vitalizio, una rendita stabile. Molti denunciano anche un “mercato nero” delle case. Troppa parte del mondo politico preferisce chiudere gli occhi e non intervenire.
I tecnici dell’ATER dichiarano che un avvicendamento dell’1,5 – 2 % ogni anno sarebbe del tutto normale. Su 100.000 appartamenti vorrebbe dire 1.500 – 2.000 alloggi disponibili per essere assegnati ogni anno. Se così fosse il dramma dell’emergenza abitativa estrema, con l’incubo di non avere un tetto, con l’ufficiale giudiziario alla porta, sarebbe risolto.
Ma il problema della gestione del patrimonio non viene posto. Si e no un’inchiesta giornalistica ogni due tre anni. E’ un problema difficile. Scabroso. Significherebbe portare un pezzo di Europa nelle Amministrazioni. Non è un problema di qualche funzionario. L’ATER lo ha posto, ma non ha strumenti legali e operativi per risolverlo. E’ un problema sociale, amministrativo, di gestione: è un problema politico. Che riguarda anche noi urbanisti, perciò lo segnaliamo con forza.
Il secondo problema si chiama nuova offerta di edilizia sociale.
Un’offerta che – come è chiaro da molto tempo – deve essere commisurata alle caratteristiche vere della domanda, molto più articolata e segmentata che in passato. Ci sono le giovani donne come Cintanami, cui per ora bastano 30 mq, magari con alcuni servizi in comune per risolvere assieme ad altre giovani i problemi della gestione familiare. Ci sono le giovani famiglie immigrate, con più figli, che hanno bisogno di più spazio e di case diverse; ci sono gli studenti fuori sede; le coppie di anziani; i single, che hanno bisogni abitativi differenti se sono giovani oppure anziani.
Molte domande diverse alle quali rispondere con esattezza. Mirando bene.
Il modo sbagliato di rispondere – come ha fatto l’attuale amministrazione di centro destra – è porre il problema dei terreni per edificare. Secondo l’amministrazione il Piano regolatore vigente non offrirebbe aree per costruire nuove case! Quindi bisogna trovarne di nuove, anche nell’agro romano. Quindi un bando rivolto ai proprietari, perché indichino i loro terreni da rendere edificabili. Un favore alla rendita immobiliare.
Che manchino aree edificabili nel PRG è un falso. Ci sono, non è necessario invadere aree agricole o libere. Il Piano ha previsioni edificatorie sufficienti a realizzare almeno 25.000 alloggi sociali. Lo abbiamo dimostrato più di un anno fa con Daniel Modigliani. Invece, con la scusa del social housing, si vogliono rendere edificabili aree che non lo erano.
Un tempo, nei decenni della grande crescita edilizia che però non serviva a ridurre “l’emergenza” si denunciava: “case senza operai, operai senza casa”. In realtà ponendo il problema delle aree, favorendo la speculazione, si vuole tornare lì.
Sollevare il problema delle aree vuol dire nascondere i problemi veri che sono: avere le risorse economiche, gli investimenti per costruirle davvero le case sociali. E avere idee e capacità per costruirle bene e con qualità.
Emerge qui un obiettivo comune sul quale impegnarci, noi piccolo Istituto di cultura, e voi, il Sindacato, la CGIL.
Non consumare più agro romano. Salvare questo patrimonio straordinario di storia, di natura, di bellezza. Sostenere le attività e il lavoro in agricoltura. Rispettare il limite chiaro ed evidente alla edificabilità stabilito dal Piano regolatore.
E costruire case destinate davvero a chi ne ha bisogno.
Non basta. Noi sappiamo, non solo attraverso gli studi e la teoria, ma grazie alle concrete realizzazioni di alcune città italiane e di tante città europee, che si possono realizzare case sociali, destinate davvero alle famiglie di immigrati, ai giovani con redditi bassi e precari, alle tante Cintanami delle nostre metropoli, costruendo quartieri sostenibili, quartieri in cui la qualità ambientale, il risparmio energetico, la raccolta dei rifiuti, l’uso di energie rinnovabili, la qualità ed anche la bellezza degli spazi pubblici non siano promesse. Siano realtà. E sappiamo anche che quando la città si fa in questo modo, allora cresce nelle persone il sentimento di cittadinanza. Allora si è orgogliosi di abitare in un quartiere che non dilapida le risorse naturali ma le risparmia e le conserva per le generazioni future.
Per far questo si deve cambiare, come giustamente dice il titolo di questo convegno, il modello di sviluppo.
Ora, vedete, qualcuno pensa che si possa uscire dalla crisi ricominciando tutto come prima; con la stessa speculazione immobiliare, con la stessa mancanza di qualità.
Non è così. Non è così in nessun campo. Ancor più chiaramente non è così nel costruire la città.
Cosa è successo negli ultimi dieci – quindici anni? Nel corso della “bolla immobiliare” (1998 -2007) si è costruito moltissimo. Secondo il Cresme due milioni e mezzo di nuove abitazioni. Molto più che negli anni precedenti. Ma si è costruito con pessima qualità. Senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale, economica, sociale. La speculazione ha vinto.
Nelle grandi città le case sono state costruite ad un costo di 1.200/1.500 euro al metro quadrato. E sono state vendute a quattro, a cinque volte tanto.
Il surplus, la rendita immobiliare, è finita nelle tasche degli operatori immobiliari.
Poi la “bolla” è scoppiata. E da lì la crisi finanziaria si è propagata alla scala globale. Gli eccessi speculativi sono stati all’origine della crisi.
Immaginare che tutto torni come prima è pura follia. Vuol dire avere la vista corta; o peggio.
Perché si cambi il modo di produrre città, di costruire case per chi ne ha bisogno, si deve cambiare il modello di sviluppo.
Perciò innanzi tutto i plusvalori prodotti devono tornare alla città. Le rendite prodotte dalle dinamiche urbane, dalle trasformazioni urbane non possono essere appannaggio dei privati.
Certo non è un tema nuovo. L’intera storia dell’urbanistica moderna è percorsa dal conflitto sulla appropriazione, e sull’uso, delle rendite urbane. Un conflitto con vicende alterne. Ora è tempo che la destinazione pubblica torni a farsi sentire, con forza. Uscire dalla crisi in modo che non si riproduca significa questo.
Vedete il Piano regolatore vigente, approvato dopo un così lungo percorso, stabilisce una regola anche in questa materia. Stabilisce con precisione la quantità di plusvalore che deve tornare alla città sotto forma di contributo straordinario: i due terzi cioè il 66%. Perciò i proprietari si oppongono, ricorrono al Tribunale Amministrativo Regionale, tentano di demolire le regole che la città si è data democraticamente. Ma già in casi precedenti il Consiglio di Stato ha dato definitivamente ragione al Piano. Noi intendiamo difenderlo, affiancando tutte le amministrazioni che si impegneranno in questa direzione. Crediamo che anche questa volta le regole della città prevarranno.
Ma per fare case, quartieri e città sostenibili recuperare risorse economiche dalle rendite urbane è una condizione necessaria, non sufficiente. L’altra condizione è che la sfera pubblica non abdichi ai suoi compiti. Che sono quelli di dare regole generali, giuste, semplici e di impegnarsi a renderle operanti, a controllarne l’applicazione.
Vedete non c’è esempio europeo di buone pratiche nella realizzazione di quartieri sostenibili, di vero social housing, in cui non si trovi che vi è stata una regia pubblica competente e autorevole, che ha guidato il processo dall’ideazione, alla costruzione, alla gestione. Impariamo dunque dalle migliori esperienze europee.
Impariamo una buona volta, ancor più dopo questa crisi, che il mercato lasciato a se stesso non è in grado di produrre buona città. Non è in grado di fare città sostenibili e di darci una buona qualità dell’abitare, per tutti. Per questo servono le regole.
Come vedete ci sono molte cose che ci uniscono, per le quali possiamo impegnarci insieme.
Perciò auguro a noi tutti, e a questo Convegno in particolare, davvero buon lavoro!
Mimmo Cecchini
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